Una maestra nuova

Essere parte della scuola è senza dubbio un’esperienza di vita complessa per una maestra e per un maestro. A scuola si gioca una scommessa antropologica, esistenziale: educare alla vita i bambini e le bambine in bilico tra il vecchio con cui si confrontano ed il nuovo che porteranno al mondo. Desideri, progetti e prospettive urtano quasi naturalmente con i limiti, le imminenze e i vincoli di una scuola piena di chiaro scuri. Succede normalmente che si entri la mattina con un nobile intento, e si esca al pomeriggio con il peso di un fallimento. Ma succede anche che una mattina inizi difficile e un attimo dopo si trasformi in una meravigliosa quanto inattesa avventura. E qui ciascuno ha le sue storie da raccontare… In queste situazioni che hanno dell’ordinario, il rischio di perdere la bussola è altissimo. La frustrazione è sempre dietro l’angolo, soprattutto quando si lascia prendere il sopravvento a quell’Io giudicante, quello che valuta il prodotto del lavoro, che scandaglia il quotidiano con rigidità, che misura la soddisfazione rispetto alle aspettative proprie, dei bambini, dei colleghi o delle famiglie. Sono spaccati quotidiani non solo della scuola, ma della vita, di cui in fin dei conti la scuola è solo uno specchio.

Per non perdersi, è essenziale per una maestra riuscire a trascendere la scuola «reale”, trovare spazi e tempi per prendere le distanze, anche emotive, per tirare il fiato ma soprattutto per riflettere e studiare. Credo che il segreto di ogni buona maestra stia proprio in questo oscillare continuo tra la realtà della scuola e una riflessione che la trascenda e che possa riportarla alla scuola trasformata, alla giusta distanza, con uno sguardo diverso e consapevole. Metto sullo sfondo tre possibilità e provo a guardarci dentro: l’osservazione del bambino, la cura di sé stessa e il giusto studio.

Maria Montessori ci dice che sono i bambini stessi, nel loro rivelarsi, che innalzano la maestra ad un livello superiore: guardare «all’opera dei bambini che con la rivelazione della loro spiritualità hanno profondamente commosso la maestra, sollevandola ad un livello di cui essa stessa non conosceva neppure l’esistenza»[1]. Per coltivare questa attitudine dagli esiti così speciali, bisogna scegliere di farlo: lasciarsi andare, abbandonarsi e cedere alle proprie rigidità, correre il rischio di guardare ai bambini senza misurarli troppo con le nostre aspettative. Significa intravedere il bambino che diventerà, immaginarsi il compimento di quel bambino normalizzato dal lavoro e riportato alla sua natura primordiale.  La maestra sa che la crescita del bambino è costellata di sobbalzi in avanti e di battute di arresto, di attimi di gioia e di momenti di smarrimento. Ci giochiamo veramente la nostra professionalità nei momenti che sentiamo più difficili e cioè quando il bambino regredisce, si ferma, si perde. È lì che possiamo imparare a stare.

Veniamo al prendersi cura di sé. Fare “Endo-maternage” mi sembra una proposta davvero interessante: mettersi, cioè, «all’ascolto del proprio bambino interiore e trasformarsi in vista dell’incontro con il bambino esterno»[2]. È quasi come se si capovolgesse il Metodo e si chiedesse alla maestra di rivolgere, per un momento, a sé stessa tutte le attenzioni che solitamente rivolge al bambino. Così facendo l’educare un bambino diventa pretesto per ripercorrere qualche passaggio fondamentale della propria vita, magari ascoltando anche le storie educative che hanno fatto male e di cui restano ancora le ferite.  La maestra può raccontarsi non tanto per risolvere, quanto per prendere maggior consapevolezza di sé: la meta da raggiungere è cercare di star bene con sé stessa, con una identità mutevole, che ha le sue contraddizioni, i suoi non sensi, i suoi momenti di crisi e le sue rinascite. Una maestra che sceglie in questa direzione, quando torna al bambino vero e alla scuola di tutti i giorni è diversa e la sua opera educativa ne risulta trasfigurata.

Lascio in fondo lo studio. Uno studio che dicevo giusto riferendomi alla sua misura. Sono sostenitrice della formazione continua di chi lavora perché lavorare e studiare cambiano reciprocamente il loro valore: studiare dà al lavoro un senso diverso perché ci permette di interrogare quello che facciamo, di diventarne più consapevoli e allo stesso modo l’esperienza lavorativa ci fa cercare nello studio risorse nuove, nuova linfa per stare nella realtà quotidiana. Conoscere però richiede tempo, si tratta di un processo attivo: occorre far propria la conoscenza a cui ci esponiamo. Prendo da Daniela Lucangeli una bella immagine per spiegare meglio il senso che possiamo dare allo studio, non solo per i bambini ma prima di tutto per noi adulti. Il primo movimento che la conoscenza attiva è “da fuori a dentro”: è il tempo dell’incontro con il sapere che fa ingresso nella nostra persona e riguarda la nostra spera intellettuale ma anche quella sensoriale ed emotiva. Il secondo è “da dentro a fuori” e pensiamo subito alle competenze: come abilita il sapere, cosa si impara a fare di nuovo, come si cambia in meglio. Del terzo moto purtroppo corriamo il rischio di dimenticarci e invece lo trovo così affascinante: “da dentro a dentro”.  È il tempo del significato, del senso, dell’appropriazione di un sapere che deve necessariamente passare attraverso la nostra individualità per essere restituito secondo le possibilità e la creatività di ciascuno. Questa ultima fase richiede tempo, richiede spazio interiore perché possa sedimentare insieme a tutto il resto e pian piano fiorire ed emergere dalle nostre profondità. Ritorno quindi sulla giusta misura per dire che a momenti di formazione devono seguire necessariamente momenti di silenzio, di riflessione, di sperimentazione nel reale consapevoli che può andar bene come no, che possiamo riuscire nel nostro esperimento oppure no. E allora ci serve tempo per tornare proprio al sapere appena studiato (non ad uno nuovo, sic!) e interrogarlo alla luce del nostro lavoro. Senza questo terzo moto appiccichiamo soltanto bollini al nostro curriculum e aggiungiamo disordine al nostro sentire e al nostro fare.

Oscillare, come ho detto all’inizio: oscillare continuamente tra la scuola reale e l’esperienza di allontanarsene, di trascenderle per guardare meglio al bambino, riprendere noi stessi fiato e curarci di noi e per nutrirsi al banchetto di quell’utopia pedagogica senza la quale ogni sforzo di educare perde il suo significato e la sua forza.


[1] M. Montessori «Educazione per un mondo nuovo», Garzanti, Milano, p. 147

[2] E. Balsamo, «Libertà e amore», Libertà e amore. L’approccio montessoriano per un’educazione secondo natura, Il Leone verde, Torino 2010, pag. 175

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