Liberi di disegnare

“Maestra, non so disegnare!” mi dice Edoardo avvicinandosi timidamente e portando in mano l’immagine di una melagrana.

Era pomeriggio, ero in una primaria. Ho presentato ai bambini alcuni lavori che mi pareva potessero essere un buon inizio per il pomeriggio. Tra questi c’era una nomenclatura della frutta fresca ricca di esemplari e provvista di una descrizione del frutto, delle sue parti e delle sue proprietà organolettiche. Cinque bambini hanno scelto quel lavoro e hanno iniziato a disporre con cura tutte le carte della nomenclatura per lungo, facendo una fila che percorreva metà della parete dell’aula e si muovevano lungo questa linea dicendosi l’uno con l’altro quali fossero i frutti preferiti e perchè. A qualcuno è venuta in mente l’idea di disegnare i frutti preferiti e creare, intorno al disegno, una scheda del frutto con le sue caratteristiche. L’ingaggio del gruppo è stato immediato: hanno cercato l’occorrente, scelto ognuno i suoi frutti e hanno conquistato una porzione di pavimento per iniziare il lavoro. E’ stato proprio in quel momento che Edoardo mi si è avvicinato confidandomi la sua difficoltà nel disegnare.

Mi sono ricordata allora di un gesto dal sapore delicato che usavamo a “Villa Clara”: disegnare nell’ombra. Quando un bambino arrivava con questa paura di non saper disegnare, la prima premura era quella di accoglierlo con serenità per restituirgli la normalità del suo sentire come fase naturale nello sviluppo del disegno. E poi con voce delicata ho imparato a sussurrare al bambino “Se vuoi, te lo disegno nell’ombra…” e tracciavo un primo segno sul suo foglio, appena appena visibile: ho sempre avuto l’impressione di offrire un contenitore per il disegno che potesse magari anche contenere le emozioni. I bambini sapevano benissimo che nessuna di noi li avrebbe mai sostituiti nel disegnare ma venivano lo stesso perché sapevano che non li avremmo giudicati, non avremmo sminuito il loro sentire ma, al contrario, forse un po’ complici, avremmo offerto loro una delicata “spintarella”.

Così ho chiesto ad Edoardo se voleva che disegnassi per lui nell’ombra. Non mi conosceva, non sapeva cosa pensare di quell’ombra. Comunque ha accettato e così ho tracciato sul suo foglio un’ellisse quasi impercettibile e l’ho invitato a guardare attentamente la fotografia della melagrana che aveva in mano. Ha iniziato subito a guardare la fotografia e tracciare sul foglio, guardare la foto e tracciare sul foglio senza distogliersi un momento da questo lavoro: sono comparse man mano la balausta, poi la membrana e poi ogni singolo arillo. Prima ha lavorato solo di matita e poi ha perfezionato il suo sentire con i colori. Il risultato è stato un disegno meraviglioso, degno di un albo scientifico illustrato: un dettaglio e una coloritura resi possibili da un occhio attento, curati da una mano abile e concepiti da un animo liberato.

La fatica di quel bambino ha risuonato fortissima in me perché anch’io ho sempre pensato di non saper disegnare e non ho mai usato questo linguaggio per esprimermi. Mi rivedo con Gabriele davanti al cavalletto della pittura in casa dei Bambini: lui aveva in mano uno stegosauro ed io un pennello. Nel suo ambientamento, Gabriele ogni mattina entrava nella stanza con una diversa miniatura di dinosauro. Trascorreva sereno il suo tempo ma quando si sentiva per un momento spaesato, si avvicinava alla maestra e le chiedeva di fare un disegno del suo dinosauro. Quanto a me, non ho mai rifiutato l’invito: sentivo che non si trattava di sapere o non saper disegnare. La prima volta è stata dura perché ero troppo concentrata sul fatto che il ritratto che avrei prodotto non sarebbe stato minimamente somigliante al modello e provavo un po’ di vergogna nei confronti delle colleghe che erano con me nella stanza. Ma Gabriele, silenzioso, non si curava delle mie pennellate incerte: i miei occhi e i suoi si muovevano insieme dal foglio all’animale e viceversa. Parlava solo per darmi qualche indicazione. Alla fine, la prima volta gli porsi il disegno pensando che lo potesse interessare, ma non lo volle: rifiutando i miei disegni, mi aveva chiaramente fatto capire che quello che cercava era la mia presenza e aveva scelto con chiarezza il linguaggio per mettersi in relazione con me. Da quel momento ho iniziato a dare al disegnare un significato diverso.

Disegnare è un bisogno del bambino. Montessori lo esprime forte e chiaro quando dice “Quegli è il fanciullo in cerca d’ogni linguaggio, d’ogni espressione, perché nessun linguaggio è sufficiente a sfogare la vita zampillante dentro di lui. Egli parla, scrive, disegna e canta come un usignolo gorgheggia in primavera”.

Come facciamo a dar spazio in ambiente al disegno quando, magari, non è un linguaggio con cui abbiamo confidenza? Ma poi bastano i materiali? Quando insegno la matematica Montessori alle maestre, tutte sentiamo quanta pace ciascuna abbia bisogno di fare con quel mondo dei numeri che la scuola non è riuscita a farci comprendere. Come facciamo a garantire quel profetico cento di Malaguzzi?

C’è da pensarci e da lavorarci seriamente sul disegno, soprattutto nella scuola primaria. Per tutti quei bambini che, diversamente da Edoardo, non riescono ad affidarsi alla maestra condividendo il timore di non saper disegnare.

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